Il mattino del 23 settembre 1572 tutta Cusco piangeva.
Tradotto in catene nella capitale, dopo la disfatta di Vilcabamba, Tupac Amaru fu imprigionato in attesa del processo. Seguendo l’esempio del fratello Tito Cusi e dello zio Atahualpa, l’ultimo re Inca si convertì alla religione cattolica, accettando il Battesimo nella vana speranza di essere risparmiato.
Il comportamento dell’Inca durante i due mesi di prigionia fu irreprensibile. Gli stessi sacerdoti cattolici lo presero a ben volere, ma né l’intercessione dei frati né della popolazione di Cusco, indigena e spagnola, mossa a compassione per quel giovane re, la cui unica colpa era stata di amare il suo popolo e di volere per esso un futuro di libertà, riuscirono a smuovere l’ostinata decisione del viceré.
Francisco de Toledo aveva deciso che l’Inca dovesse morire e così fu.
Dal palazzo di Colcapata, dov’era rinchiuso, Tupac Amaru scese la ripida via che portava alla grande piazza cittadina. Ai lati della strada, alle finestre delle case, sui tetti, migliaia di persone singhiozzavano. Sopra una mula bardata di nero cavalcava l’Inca, le mani legate e una corda attorno al collo. Il viso sereno e lo sguardo aperto, Tupac Amaru, scortato da un folto manipolo di armigeri, avanzava piano, regalando gli occhi alla moltitudine piangente.
In mezzo alla piazza stava il patibolo, sopra attendeva il boia.