Sono stato un padre severo, ma non ti ho mai picchiato.
Ancora adesso ricordo quelle mani che sfogavano su di me qualcosa che non sono mai riuscito a spiegarmi.
Scappai di casa quando ero molto piccolo, ma il sacerdote, che mi conosceva, mi trovo, mi fece sedere vicino a lui sul bordo del marciapiede e disse: “Ti capisco, però anche la strada fa male ed è pericolosa. Torna a casa, Antonio”.
A 6 anni il mio babbo, per consolarmi, mi diede una sigaretta. Quella che ancora mi vedi tenere tra le dita dalla mattina alla sera, come se non si fosse mai spenta.
A 16 anni, sfollati a Modigliana, decisi che il mondo doveva sapere che ad Antonio Salvan non piaceva il fascismo e lo dissi al gruppo di amici in piazza; solo che la mia voce, sempre forte e decisa, arrivò alle finestre del gerarca, che scese le scale per arrestarmi. Riuscii a fuggire sulle montagne, indossavo pantaloncini e maglietta. Con me, arrivò sui monti la neve. I partigiani mi accolsero e dormimmo “di taglio”, sul fianco, per scaldarci il più possibile. Divenni per tutti Pucci, il nome del mio gatto rosso.
Una notte ero di guardia, ma mi addormentai. La punizione più dura fu l’esclusione dalla missione del giorno successivo. Quella fu l’ultima del mio comandante, Silvio Corbari: era un’imboscata.
Cinquanta e più sfumature del cuore
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